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Comunicare è vivere. Non si può non comunicare. Anche quando voltiamo le spalle a qualcuno o chiudiamo una porta o semplicemente diciamo:” Non voglio comunicare”, perfino allora, comunichiamo la nostra non disposizione alla comunicazione.  Ogni giorno, in ogni luogo, siamo immersi in un mondo semiotico che, attraverso i cinque sensi, ci consente di relazionarci con  l’esterno. L’IO comunica con il mondo dal primo momento in cui esiste al mondo. E l’esistenza contrassegna l’essenza attraverso un reciproco rapporto fatto di segni volontari e involontari che scrivono e descrivono la vita di ciascuno di noi. Il linguaggio verbale è sicuramente l’acme di questo processo. Il segno linguistico, infatti, appartiene ad un codice generale definito lingua storico-naturale che contraddistingue una comunità nazionale, nella convenzionalità dell’uso e nella tradizione culturale  formalizzata e trasmessa attraverso la lingua stessa. La scuola è sicuramente l’ambiente civico in cui la lingua standard si consolida e si trasmette ma è in ambito familiare che si apprende la “lingua materna”, intesa come codice naturale che consente di interagire per la sopravvivenza. Dalla madre, dal padre e dall’habitat familiare derivano quei segni che spesso per tutta l’esistenza forniranno l’imprinting per ulteriori apprendimenti, quasi come una sorta di semaforo sentimentale ed affettivo che consente la decodifica, in senso positivo o negativo, di tutti gli input esterni. “Tra gli ambienti che partecipano alla e della vita dell’uomo, la famiglia occupa senza alcun dubbio un posto privilegiato. La trama dei suoi legami, governata da regole, sotto l’aspetto pedagogico si costituisce come archetipo relazionale, suscettibile o d’incanalare e incrementare o di svilire e pregiudicare le potenzialità individuali”[1] La prima comunicazione, dunque, avviene in famiglia o, comunque, laddove abbiamo avuto la ventura di nascere e trascorrere i primi anni della nostra vita. Poichè, abbiamo esordito con un dato  imprescindibile, relativo al fatto che non si può non comunicare, dobbiamo accettare l’ipotesi di una forma di discomunicazione , una specie di comunicazione mancata, di preziosa occasione perduta che potrebbe essere alla base di carenze affettive e cognitive dell’essere umano in crescita e che si manifestano in seguito, quando l’età consente di rispondere agli input ricevuti, positivi o negativi quali siano stati. La riflessione, a questo punto, non riguarda più solo la famiglia  ma l’ambiente educativo che riceve dalla famiglia il compito sociale di educare attraverso la comunicazione: la scuola. A scuola si può e si deve saper comunicare tanto più quanto non si è potuto in famiglia. La scuola non ha alibi alla mancanza di consapevolezza rivestita dalla capacità di relazionarsi con ciascun soggetto in crescita.  Come ci rammenta l’etimo del lessema “in-segnante”, gli insegnanti lasciano il proprio “segno”  attraverso una comunicazione che è, innanzitutto, relazione personale fondata sul rispetto dell’altro, sull’attenzione ai bisogni cognitivi ed affettivi dell’allievo, sulla costante ricerca epistemologica e deontologica delle modalità migliori per consentire a potenzialità e talenti inespressi di emergere, facendo del sapere disciplinare lo strumento di emancipazione del futuro “cittadino del mondo”.  Comunicare… sul ponte tibetano dell’adolescente La scuola secondaria di primo grado ed il biennio, alla luce dell’innalzamento dell’obbligo d’istruzione, pongono dolorosamente in luce, situazioni di abbandono scolastico e devianza precoce che pregiudicano il successo formativo dell’intero sistema. L’adolescente, spesso in conflitto con il mondo esterno a causa della delicata fase della propria crescita, popola  il personale  mondo interiore di  una quantità enorme di “impressioni”,  derivanti dalla molteplicità di informazioni da cui è costantemente bombardato e si “apre” soltanto attraverso un sincero rapporto affettivo e di fiducia.[2]  Un adolescente che ha fiducia nel proprio insegnante, non abbandona la scuola perché non abbandona la propria guida. L’abbandono scolastico equivale, dunque, ad un fallimento della comunicazione allievo/insegnante.  Non fallisce solo l’allievo, fallisce anche colui che non ha saputo costituirsi come suo punto di riferimento nel percorso formativo che, ove non prosegua con “guide” più capaci, condurrà a nuovi fallimenti personali e professionali.  L’adolescenza è un’età di passaggio che chiude una stagione apparentemente “facile” e dorata qual è l’infanzia, in cui c’è sempre qualcuno che sceglie per noi e ci spiana il cammino e apre la stagione della giovinezza, stagione in cui cominciamo ad assumerci la responsabilità di alcune scelte che diventano importanti e possono segnare l’intera esistenza in senso positivo o negativo. Il passaggio dalla comunità educativa naturale, qual è la famiglia, alla comunità civile, rappresentata dalla società, avviene attraverso la scuola,  intesa quale comunità educativa in cui il soggetto in crescita può esercitare il proprio diritto alla cittadinanza attiva, nel rispetto delle regole sociali, in un ambiente “protetto”, a contatto con i propri pari, in cui è possibile scoprire e sperimentare compiti e ruoli e, con la guida ed il modello degli adulti, allargare i propri orizzonti sociali, inserendosi in modo graduale nel tessuto produttivo della propria comunità. La comunicazione formativa è dunque quella modalità di trasmissione culturale  che abbia come finalità etica la formazione e come modalità relazionale la comunicazione verbale e non verbale consapevolmente e contestualmente strutturata. I fondamenti epistemologici della comunicazione formativa possono essere così riassunti: -creare il clima d’aula, improntato sulla fiducia e sul rispetto reciproci, sul cooperative learning e sulla consapevolezza che ciascuno è risorsa per il gruppo; -condividere la programmazione del proprio insegnamento con l’utenza, stabilendo obiettivi, strumenti, prove, attraverso  un patto formativo che è anche un patto linguistico di comprensione reciproca e comprensione del linguaggio disciplinare -progettare l’iter formativo sulla base di un’attenta valutazione diagnostica, consapevole dei reali bisogni cognitivi e relazionali dell’utenza, - controllare in itinere i progressi di ciascuno, al fine di non lasciare indietro nessuno, - predisporre materiali strutturati sul problem solving e su compiti di realtà per motivare alla collaborazione, -formalizzare schede semplici e palesi di autocorrezione ai fini di una chiara e corretta autovalutazione, -premiare creatività e spirito critico attraverso percorsi disciplinari irrituali, aperti al reale ed all’interazione con le altre discipline. Non comunicare equivale ad abbandonare    Abbandonare è un “non scegliere”, un rifiutare di proporsi attivamente in società perché ci si sente inadeguati. L’abbandono scolastico non è una scelta SOLO dell’allievo ma il frutto di reiterate esperienze  discomunicative inadeguate e frustranti, corredate  per i discenti, da crescente perdita di fiducia nelle istituzioni e in se stessi e per i docenti, dalla perdita progressiva della capacità di orientare efficacemente la propria attività educativa. Ciò che dobbiamo comprendere è che ci sono gli “indizi” dell’abbandono, una sorta di mappa semiotica del disagio che il professionista della comunicazione formativa DEVE saper decodificare: assenze reiterate, ritardi frequenti e spesso mal giustificati, verifiche di profitto con esito negativo, atteggiamenti di insofferenza e/o sfida, chiusura nei confronti dei docenti o dei compagni, aggressività latente o, al contrario, apatia, costituiscono una casistica che consente ad osservatori competenti di comprendere come tra il momento dell’ingresso dell’allievo a scuola e quello del suo definitivo rifiuto delle istituzioni, trovino posto spazi preziosi preposti alla decisionalità istituzionale e spesso inutilizzati dagli attori del processo educativo. La coscienza civica di ogni docente impone che l’adolescente possa contare sull’istituzione scolastica tanto più quando non può contare sull’istituzione familiare o sul contesto sociale d’appartenenza.[3] Gli adolescenti cosiddetti “difficili” presentano forti carenze affettive, sono chiusi ed introversi, incapaci di essere propositivi, demotivati e con poca fiducia nelle proprie capacità o, al contrario, appaiono iperattivi, irrispettosi di orari e regolamenti,  costantemente protesi ad attirare l’attenzione su di sé, incostanti e superficiali nelle prestazioni. Sono caratterizzati da forte deprivazione linguistica e conseguenti difficoltà scolastiche derivanti dall’incapacità di utilizzare strumentalmente la lingua standard nelle abilità di studio e hanno poca abitudine al pensiero astratto con conseguente difficoltà di concettualizzazione e di memorizzazione teorica. Oggi più che mai, in assenza di una famiglia tradizionale che possa seguire costantemente il processo di crescita del minore ( anche nelle “migliori” famiglie, i ritmi di vita comportano comunque forme diverse di “assenza” affettiva), a scuola è necessario che il bambino, l’adolescente, il giovane possano cercare e trovare quella forma tutoriale di confronto e conforto necessaria per affrontare il processo di crescita con serenità e responsabilità. Anche se è sempre più complesso fondere competenza disciplinare e perizia pedagogica in classi numerose e scuole dalle strutture non sempre adeguate ai bisogni di un’utenza  variegata e multietnica, è necessario non dimenticare mai che la vera democrazia si costruisce attraverso l’integrazione, la tolleranza, la cooperazione e soprattutto che,  il più delle volte, i nostri allievi, oltre alla scuola,  non hanno nient’altro.           La comunicazione formativa nella scuola italiana Non consola apprendere dalle statistiche che la maggior parte della gente di successo, in Italia, non era una cima a scuola. D’altronde, anche la disfatta italiana delle prove OCSE PISA dimostra che qualcosa non va nel nostro sistema di istruzione visto che  in fatto di problem solving, i nostri studenti sono piuttosto scarsi, mentre brillano in nozionismo al Liceo ed in dispersione  al professionale. Il fatto è che il successo,  a scuola, nelle relazioni interpersonali, nell’ambiente di lavoro, è il più delle volte determinato dall’ottima capacità di comunicare, soprattutto verbalmente e dunque dall’alto  livello di competenza raggiunto nell’utilizzo delle cosiddette quattro abilità: ascoltare, parlare, leggere e scrivere. Compito della scuola di base è sviluppare e potenziare tali abilità ma, come appare evidente, spesso è proprio la scarsa capacità di espressione, comprensione, produzione che vengono imputate ad un allievo ritenuto “poco diligente”: questo meccanismo perverso a valenza circolare è fortemente contraddittorio e può essere spiegato solo con il fatto che, spesso, all’interno delle varie istituzioni scolastiche  non   si tiene conto di  alcune riflessioni che dovrebbero essere alla base di una corretta  didattica della comunicazione linguistica: ogni essere umano apprende la lingua materna e con essa sviluppa il proprio sistema cognitivo ogni essere umano apprende ciò che gli OCCORRE oppure ciò che egli DESIDERA apprendere ogni essere umano apprende apprendendo[4]   La riflessione n. 1 ci porta al complesso problema delle minoranze linguistiche e della dialettofonia forte che per molti nostri allievi è ancora il prodotto di una lingua locale sentita come lingua materna e dunque come L1, rispetto all’Italiano standard avvertito se non come  lingua “straniera”, comunque come lingua “imposta” dall’istituzione scolastica in situazione formale; i linguisti parlano di “diglossia”, indicando con questo termine la “sudditanza” del dialetto rispetto all’Italiano mentre il “bilinguismo” è la capacità di “pensare” e dunque comprendere e produrre liberamente in due lingue con pari competenza. La seconda riflessione ci porta a comprendere come sia il BISOGNO a spingere l’uomo a comunicare e ad apprendere, sia che si tratti di bisogni primari e materiali sia che si tratti di bisogni spirituali di tipo emotivo, affettivo o cognitivo;sul metodo del problem solving,  si fonda la moderna pedagogia che intende potenziare la capacità umana di “risolvere problemi”. Il fatto è che il soggetto apprendente deve sentire come reale il problema in questione, ovvero lo deve avvertire come “proprio problema”, altrimenti non scatterà mai in lui quella motivazione che è preziosa nel rapporto di collaborazione con il docente; così come solo una spinta di tipo emotivo ed  affettivo può indurre qualcuno a “desiderare” di apprendere, se alla base non c’è un reale, immediato bisogno di tipo pragmatico. Ci siamo mai soffermati a pensare che abbiamo amato la letteratura italiana ( o l’abbiamo odiata) perchè amavamo  ( o odiavamo) chi la insegnava? Il “trasfert”, quell’arcano processo di tipo psicanalitico che tutti noi abbiamo vissuto ogni volta che da bambini abbiamo indossato con somma soddisfazione ( e magari di nascosto) un indumento di qualcuno che amavamo, si riproduce magicamente durante la nostra vita da scolari e poi da studenti, portandoci a “scoprire” attitudini e talenti grazie alla scienza ed al fascino di un mentore, un modello, un “maestro” che abbiamo analizzato consapevolmente o inconsciamente ogni giorno, osservandone il comportamento, lo stile di vita, il linguaggio, persino l’abbigliamento... Inoltre, se proprio come docenti non ci sentiamo carismatici, c’è sempre la possibilità di “diventare qualcuno” attraverso la disciplina che noi insegnamo e, per le discipline dell’area linguistica, non ci dovrebbero essere problemi di sorta: programmi televisivi e radiofonici, films, carta stampata, teatro  e pubblicità sono strettamente legati alla capacità di sostenere un’ affascinante o dotta conversazione e di produrre  una comunicazione efficace. Infine il terzo spunto di riflessione ci conduce al percorso didattico che di per sè diviene percorso cognitivo quando riesce a far leva su quanto abbiamo sottolineato in precedenza e che, dunque, facendo leva sulla libera volontà di apprendere e comunicare, predispone la mente ad accogliere attivamente gli input,  GENERANDO nuovi apprendimenti ovvero apprendimenti creativi[5]. Le scienze neurologiche, infatti, indicano aree cerebrali rispondenti a percorsi cerebrali differenziati che consentono di far interagire i due emisferi cerebrali e dunque la parte emozionale del Cervello, il Talamo, sede della memoria Emotiva con l’ Ippocampo, sede principale della parte cognitiva e cioè della cosiddetta memoria a lungo termine, consentendo al Cervelletto di  agire nella formazione della memoria operativa e nel coordinamento di movimenti volontari degli arti e del corpo.
Pertanto, l’agire è il risultato del conoscere e del sentire emotivamente , visto che memoria e intelletto consentono di utilizzare l’archivio in possesso di ciascuno di noi al fine di esperire risposte adeguate alla problematica da risolvere. 


   [1] L. Pati, Progettare la vita. Itinerari di educazione al matrimonio e alla famiglia, Brescia, La Scuola, 2004, p.227   [2] Questa tematica è affrontata ed approfondita in M. G. de Judicibus I segreti del Drago. Manuale della comunicazione felice, Lecce, Edizioni del Grifo, 2008   [3] Si veda per approfondire il cambiamento in atto relativamente agli ambienti di educazione sociale, l’interessante saggio di F. Rossi P. Vanzan L’altra città, Brescia, La Scuola, 2009   [4] M.G. de Judicibus, Il mito del continente sconosciuto. Per una didattica del testo come modello del processo cognitivo, Roma, Aracne, 2007   [5] I pedagogisti Howard Gardner ed Edward De Bono, che si sono interessati di modalità di apprendimento e sviluppo cognitivo, parlano di “intelligenze multiple” legate all’individualità ed al contesto, in grado di rispondere in modo differenziato al problem solving. Per approfondire vedi:Gardner H., Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento. Erickson, Trento, 2005;    

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