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“La ragazza e la festa”. Tradizione e cultura immateriale ad Ostuni  nel libro di Francesca Valente ( recensione a cura di Maria Gabriella de Judicibus)

Francesca Valente è nata a Brindisi e cresciuta ad Ostuni. Laureatasi a Bologna in Scienze Internazionali e Diplomatiche e  in Antropologia Culturale ed Etnologia, ha conseguito un dottorato in Diversity Management and Governance presso la Karl Franzens University of Graz, accompagnandovi impegnativi viaggi di studio e lavoro nello spazio post-sovietico e balcanico. E’ responsabile dell’Ufficio mobilità per studio dell’Area Relazioni internazionali dell’Università di Bologna, ed organizza corsi di public speaking e comunicazione interculturale. Ha scritto il libro La ragazza e la festa, Calamo Specchia Edizioni (grafica080 di Modugno BA) 2020    Ho avuto il piacere di co-presentare il libro di Francesca Valente “La ragazza e la festa”, edito da Calamo Specchia, presso l’ Archivio di Stato di Lecce, in occasione della rassegna mensile del mese di Dicembre, dell’interessante progetto LETTURE PROSSIME promosso dall’ Università del Salento e dedicata alla valorizzazione di Autori e/o Scritti legati al nostro territorio. LA DEDICA del libro “ a nonna Gina, ancora seduta su quel banco a pregare  in dialetto” già ci introduce al tema. Amore profondo per la sua Ostuni, infatti, quello della dott.ssa   Valente, amore che non passa con la lontananza, come cantava Modugno, ma diviene più intenso e chiaro come lei stessa ci dice: “Undici anni dopo rileggo le mie parole, la mia ricerca di allora, e mi accorgo di quanto mi risuonino ancora dentro, quanto il mio viaggio sia sempre tra le strade bianche e le zolle rosso sangue dell’alto Salento,… I panorami della mia esistenza non sarebbero così chiari se non continuasse a illuminarli la luce dei cieli di Puglia, e i miei rami non potrebbero crescere bene se le loro radici non fossero ancora vive, laggiù, nella terra scura della mia terra” E’ l’amore per la propria terra, per Ostuni, la bianca, che percorre lo scritto, amore reso più acuto dalla nostalgia alimentata dal ricordo. La festa di Sant’Oronzo è uno degli eventi chiave della vita di Ostuni, e la devozione al Santo ha costituito nei secoli uno degli elementi fondamentali dell’essere ostunese. E la terra e il ricordo sono gli anziani, saggi ed essenziali come gli alberi d’olivo, come loro perduti: nonna Gina e nonno Donato intrisi d’affetto, consigli, sapienza antica sempre attuale. D’altronde un’antropologa non può che cercare nei suoi vecchi le proprie radici e Valente è una letterata convertitasi all’antropologia. La narrazione parte dalla “cavalcata ostunese di Sant’Oronzo”  che quest’anno in collaborazione con l’Associazione Nazionale Allevatori e con il patrocinio del Comune e del Gal “Alto Salento”, ha partecipato con entusiasmo alla 125ª edizione di “Fieracavalli” a Verona, il prestigioso salone internazionale interamente dedicato al mondo equestre.  Questa tradizione è indagata nel lavoro precedente di tesi antropologica, condotto dalla Valente con rigore scientifico, quel rigore che ci riporta al concetto gramsciano di folklore inteso non come una bizzarrìa o come un valore minoritario della cultura popolare ma come lo scheletro stesso della sua impalcatura. Da qui, la decisione dell’Autrice di essere narratrice di una storia personale e sociale, in cui personaggi ed eventi s’intrecciano con l’emozione forte di colei che racconta. Dopo le prime interviste,-  ci dice-ho deciso che visto che stavano entrando in gioco potentemente – e inesorabilmente – le mie radici, tanto valeva utilizzarle come un punto di forza, piuttosto che considerarle un limite. Il punto di vista molto interessante dell’Autrice è che nella ricerca della giovane donna, sulle tradizioni ostunesi, il lavoro sia giovato alla memoria ed al coinvolgimento dei suoi genitori, appartenenti alla generazione precedente e, comunque, già con una memoria meno radicata rispetto ai nonni e, dunque, grati di quel ripercorrere la strada a ritroso verso le origini, ricominciando ad amare cose che negli anni avevano dato per perse o per scontate. L’identità linguistica ostunese è rivendicata in un capitolo dedicato al “nome della cosa”  in cui l’evento festivo religioso è declinato nelle sue variabili diastratiche e diafasiche a seconda dell’età, del ceto e del più o meno elevato coinvolgimento all’interno della festività stessa, e qui la visione sociolinguistica di genere sottolinea  come per gli uomini anziani, nell’ambito della cavalcata, contino i cavalieri e i cavalli ì vìštë li cavàddërë? oppure ì vìštë la Cavalcàta? (hai visto i cavalli, oppure, hai visto la Cavalcata?), per le donne anziane, Sant’Oronzo ì vìštë Sàndë Rònzë? mentre i giovani unificano e liquidano  il tutto con un generico prëggëssiònë (processione). Nella narrazione, Valente identifica la storia del Santo con quella di Ostuni e segue un duplice filo conduttore: l’acqua, fonte battesimale, purificatrice ed essenza vitale per un Sud riarso  in cui  è spiegabile  la devozione al Santo che  “faceva piovere” e un risvolto socio-politico delle pratiche devozionali: la festività oronziana ci comunica l’Autrice, è stata utilizzata come momento di auto-affermazione della popolazione ostunese oppressa dagli stranieri, quando i notabili del paese sostituirono nel corteo i nobili spagnoli; sia un secolo dopo, alla fine del ’700, quando li viatëcàrë – ossia i vaticali, i carrettieri, coloro che conducevano bestie da soma o cavalli – portarono in Ostuni in corteo la nuova statua d’argento del Santo fatta forgiare a Napoli, e poi presero essi stessi il posto dei notabili in processione. E ancor oggi la Festa è usata come passerella e rinforzo positivo dal ceto politico e amministrativo di Ostuni. L’atteggiamento nei confronti della festa, dopo la processione, rivela altri interessanti risvolti sociali: i signori potevano godersela mentre il popolo doveva tornare subito ai propri doveri in campagna. Nella sezione dedicata al “compagno Sant’Oronzo” si indaga sulle origini della cavalcata ripercorrendo la lotta secolare tra nobili locali e Zevallos i conquistatori spagnoli che dominarono Ostuni dal 1635 al 1815.A partire dal 1803, prima con l’associazione dei vaticali con 43 “devoti” e poi con l’Associazione Amici della Cavalcata di Sant’Oronzo nel 1995 un comitato laico ha ricostituito lo statuto della Cavalcata che prescrive che i cavalli non debbano mai essere meno di 43 (possibilmente tutti morelli), che i suoi componenti provengano tutti da famiglie che possiedono cavalli (fattori, allevatori, commercianti, carrettieri) o che hanno a che fare con il commercio di cavalli pur non essendone proprietari. Infatti, quando i vaticali con l’avvento delle macchine a vapore e del trasporto a motore pian piano cominciarono a scomparire dal territorio ostunese, essi furono sostituiti nella Cavalcata da chi ancora aveva cavalli a disposizione; e si trattava soprattutto di contadini ed allevatori, del resto particolarmente devoti al Santo che li proteggeva da carestie e siccità. La descrizione della  festa si snoda su tre giornate con rituali, regole e codici di comportamento precostituiti:lo stereotipo introduttivo, ( l’identità religiosa ), lo stereotipo di identificazione (i personaggi più importanti del clero), lo stereotipo principale, (la statua d’argento di Sant’Oronzo), lo stereotipo di conclusione ( la giunta comunale, i gruppi di fedeli, le Forze Armate a cavallo e infine la Cavalcata che ripropone gli stessi stereotipi). Al termine, la frase dialettale ašpëttà li fuéchë, sta ad indicare il tempo sospeso  tra la processione e l’attesissimo  spettacolo pirotecnico di mezzanotte. La mattina del 27 di agosto in un’atmosfera già da  fine della Festa e fine dell’estate, cavalli e i cavalieri, senza Santo né devoti né autorità cittadine,sfilano a partire dalle 18.00 fin davanti al palco per la premiazione, sistemato lontano dalle luminarie e dai luoghi principali della Festa.  La narrazione diviene vero e proprio racconto nella descrizione dell’Agenda del cavaliere e nel Diario di famiglia non equestre in cui l’Autrice riesce a farci “assistere”  alla giornata più importante dell’anno per Ostuni, sia vissuta da uno dei protagonisti a cavallo sia da una delle tante famiglie, protagoniste anch’esse della partecipata emozione che accompagna l’evento ed ecco che il costume da cavaliere non è da meno rispetto alla lunga treccia che  ha fatto la mamma alla giovane Anna Maria … E in lei, si risveglia il ricordo dell’Autrice che Ancor oggi, per Sant’Oronzo sceglie dall’armadio il  suo vestito più bello . E’ questa trepidante attesa della festa che verrà, questa specie di sabato del villaggio leopardiano che mi ha attratta e commossa nella lettura di questo testo. Non so quale fosse la finalità dell’Autrice ma ciò che io vi ho trovato è la riflessione sul senso profondo della tradizione, quel non so che di sacro e viscerale che nasce dalla sensazione di appartenere ad una comunità con dei valori basati sul “rispetto”, rispetto dei luoghi, del tempo, delle leggi, delle usanze, del territorio. La consapevolezza che la cultura popolare è sinergica, olistica, non può e non sa distinguere tra sacro e profano poiché tutto è sacro, riconducibile alla sopravvivenza sia essa materiale o spirituale poiché nella festa non può mancare , la féra, parola dalle molteplici accezioni: è il vecchio mercato del bestiame che si tiene nel Foro Boario il 25 di agosto (la féra, in questo casodë l’anëmàlu), ma è anche il mercato straordinario che si tiene il giorno della Festa per tutto il giorno nella zona mercatale (la féra dë Sàndë Rònzë, o “fiera dei generi vari”, come da manifesto comunale); e poi è sia l’insieme di bancarelle che vengono allestite per le tre sere della festa. Da Leccese, legata al “mio” anzi al “nostro” Sant’Oronzo, non ho potuto sottrarmi alla magia di questo racconto che diventa sempre più avvincente perché sempre meno cronachistico e più sentimentale per confluire nello story telling dei luoghi ricco di immagini e interviste, in grado di far percepire al lettore il rapporto viscerale tra la popolazione e il Santo visto come una figura paterna guardata dai cittadini non con timore, ma con l’atteggiamento un po’ scanzonato di chi, in fondo, sa che non può accadere altro che essere amati dal proprio patrono, se gli si organizzano feste lussuose come quelle ostunesi!

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